La Terra Dei Fiori
Armati di petali
Daniele Capra
Il progetto La terra dei fiori, di Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi propone una contro-mitologia rispetto ai luoghi della Campania che sono stati al centro delle cronache giudiziarie degli ultimi anni per le tragiche questioni ambientali e criminali. Luoghi che hanno visto cedere alla malavita la completa gestione del territorio, luoghi in cui lo Stato ha abdicato e i cittadini hanno convenuto di essere assenti, di non vedere o non sapere, prigionieri volontari dell’indifferenza cui in pochi hanno saputo resistere. Essere cittadini implica però schierarsi e non mettere la testa sotto la sabbia, come aveva spiegato proprio un secolo fa Gramsci, in un tagliente monito morale: “Odio gli indifferenti. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. […] Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita pone loro quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto” .
La terra dei fuochi è disseminata di scorie tossiche, è avvelenata, insalubre, è vinta dagli eventi tragici che l’hanno colpita. È un dedalo attorcigliato come in una tragedia greca in cui gli dèi puniscono gli uomini per la loro superbia, per la tracotanza dell’hýbris di coloro che hanno mancato di rispettare l’ordine necessario.
A questa impasse Vinci/Galesi suggeriscono invece una via di uscita, di ordine visivo e morale, attraverso una contro-narrazione territoriale, a partire dai fiori che in Campania sono coltivati. Al degrado essi contrappongono infatti il rigoglioso germogliare della natura, che è elemento di meraviglia ed espressione della volontaria ricerca di riscatto della cittadinanza. Il territorio campano può essere infatti anche la terra dei fiori, luogo in cui crescono gerbere e crisantemi. Nostra deve essere la volontà di invertire lo stato delle cose, nostra la spinta mirata al superamento della situazione attuale. L’arte che si propone anche di cambiare il mondo deve suggerire una percorribile pratica di salvezza. E, forse, anche dall’estremo abbandono possono germinare onestà, bellezza, dignità. Ma se, e solo se, si pensa che una soluzione a portata di mano sia praticabile.
Nelle cultura visiva occidentale il fiore è in maniera indissolubile legato alla bellezza, alla purezza, agli elementi transitori e alla caducità. Da quando si afferma definitivamente il tema iconografico dell’annunciazione, quasi ogni arcangelo che si presenti alla Madonna reca tra le mani un giglio, fiore che non è solo, insieme alle ali, uno degli attributi identificativi di Gabriele, ma anche un segno di buon auspicio e soprattutto un simbolo che fa riferimento alla purezza della Vergine. E pullulano di fiori, con una ricchezza di varietà botaniche ancor maggiore, in particolare dal secondo Quattrocento, i prati che circondano scene sacre o mitologiche, in cui sono evidenti i riferimenti alla bellezza, al ciclo delle stagioni, alla rinascita.
Il fiore reciso è inoltre uno degli elementi caratterizzanti di un genere come la natura morta, che si diffonde a partire dalla fine del Cinquecento e che diventa uno dei soggetti più praticati dalla pittura fiamminga del Secolo d’Oro. È l’allegoria della bellezza e della fugacità del mondo insieme, ma anche un campo di battaglia per le fantasie e le virtuosistiche abilità pittoriche degli artisti: è decorazione e insieme un monito, laico e realistico, frutto di una società che si sta secolarizzando e che vuole commissionare agli artisti non solo scene religiose o mitologiche, ma opere che raccontino e parlino del mondo a loro contemporaneo.
Nel Novecento delle avanguardie che passano al tritacarne ogni topos iconografico ed ogni rigidità socio-culturale, il fiore, dopo esser stato prevedibilissimo soggetto pittorico decorativo comune negli interni borghesi, perde completamente le sue caratteristiche per esser metafora di altro: in particolare della donna, dell’eros oppure, con una complessità psicologica maggiore, dell’inganno celato dalla seduzione dell’apparenza. Ma nella seconda metà degli anni Sessanta, una vera rivoluzione avviene coi movimenti studenteschi e la controcultura hippie. Allen Ginsberg teorizza in un articolo infatti come “masse di fiori – in una sorta di spettacolo visivo – specialmente concentrate sulle linee frontali possano essere usate per per creare delle barricate” . Nasce così il Flower power e l’idea di rispondere con un fiore alla violenza e alla forza dell’autorità, irridendo polizia ed esercito con un gesto infinitesimamente piccolo di protesta: ai soldati schierati si offre infatti un fiore o lo si infila dentro la canna dei loro fucili. Da quel momento il fiore è qualcosa di diverso, è strumento di una lotta pacifica, l’emblema di una stagione di non-violenza con cui manifestare la contrarietà sia alla guerra in Vietnam che ad una politica che conosce l’uso delle armi come solo strumento di risoluzione dei conflitti tra gli Stati.
Il progetto La terra dei fiori mostra ed argomenta le possibilità espressive del fiore – segno di rigenerazione e spiritualità – ma soprattutto lo rende un dispositivo politico che l’arte impiega in forma simbolica. Non vi sono in esso questioni manifestamente ideologiche, quanto invece ragioni concettuali e botaniche: condivide gli stessi terreni delle aree inquinate, ma produce bellezza, e con delicatezza suggerisce la possibilità di cambiamento dello status quo.
Vinci/Galesi propongono visioni transitorie, fuggevoli quanto la bellezza di un fiore, meraviglia condannata ad un veloce disfacimento. In queste opere l’elemento floreale trasforma, anima, nasconde. È una presenza naturale che racchiude molteplici significati che affondano le radici nelle mitologie più antiche. Ma sono anche metafora della fragilità del mondo contemporaneo, immagine di gioia e di lutto. Dell’eros che anima l’amore terreno e della pace che scioglie quello celeste.
La serie de La terra dei fiori è costituita da opere fotografiche di grandi dimensione, un neon di color magenta che icasticamente ripropone il titolo del progetto, dei mattoni realizzati impastando la terra dei fuochi e poi dei disegni e della documentazione. Tali lavori raccontano il percorso attraverso cui Vinci/Galesi hanno interrogato, grazie all’impiego del fiore, le identità individuali ma anche i luoghi dimenticati segnati da abbandono, trascuratezza, degrado civile.
La terra dei fiori suggerisce, in maniera simbolica, le potenzialità mimetiche e metamorfiche insite nell’elemento floreale, che vengono dagli artisti portate al massimo grado. La bellezza semplice di gerbere e crisantemi incarna infatti la reazione allo sfacelo di un territorio soggiogato dalla criminalità e dall’inquinamento causato dai rifiuti. È metafora del possibile ribaltamento della forzosa circostanza di prigionia, è il sogno di ribellione ad una situazione a cui, razionalmente, non si sarebbe potuto immaginare una via d’uscita percorribile.
I due artisti si mostrano interamente avvolti da un mantello floreale coloratissimo che nasconde i tratti somatici in contesti dal valore simbolico. La loro figura è quella di un spirito che dissemina colore e futuro nel grigio e nell’abbandono del presente. Il drappo in cui gli artisti sono avvolti è realizzato cucendo a mano migliaia e migliaia di fiori su eterei tessuti, rispettando un’antica tradizione propria delle celebrazioni religiose della festa di San Giuseppe di Scicli, nel ragusano. Gli scenari sono invece quelli poetici di una spiaggia in cui mare e terra si contendono la supremazia; ma quella è soprattutto la riva in cui sono sbarcati decine di disperati provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo, in fuga dalla guerra, luogo in cui si sono arenati corpi di uomini senza più speranza. La bellezza dei luoghi, testimoniata da alcune immagini degli ultimi progetti, è così un controcanto che fa stridere ancor più i limiti della condizione umana.
La terra dei fiori. Note per una rinascita
Gabi Scardi
Il progetto La terra dei fiori del duo Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi è una grande metafora. Una metafora che nasce da una necessità sentita, e che si innesta su modalità, contenuti e relazioni sedimentati nell’arco di anni. Il progetto si nutre di una serie di convergenze.
Coerentemente con l’impostazione performativa del lavoro di dei due artisti, l’aspetto scenico è fondamentale; il progetto prende anzitutto la forma di una coreografia articolata in più tempi: una sorta di rituale, e come ogni rituale, La terra dei fiori si nega a ogni univoca decodifica; vive in parte di una propria evidenza, ed esprime un’energia, una forza vitale, quasi magica. Ma non solo.
Tutto avviene in due aree: la cittadina siciliana di Scicli e il suo territorio, e la terra dei fuochi, in Campania. Anche se il riferimento è a una storia molto più grande. Vinci/Galesi si concentrano su luoghi connotati da una estrema teatralità. Tra questi compare l’antica Chiesa di San Matteo, la Mater Ecclesiae che splendidamente sovrasta Scicli dall’alto. Dopo un periodo di degrado l’edificio fu restaurato; solo per essere nuovamente abbandonato: una vicenda di incuria tristemente emblematica.
C’è inoltre la costa di Sampieri, sempre nei pressi di Scicli, con la sua magnifica spiaggia; una spiaggia che è gioia dei bagnanti, ma che ci appare ben più aspra se pensiamo che è anche punto di approdo di tanti migranti, e per alcuni di loro tragico fine-viaggio. E non è un caso che per la messa in scena della loro performance i due artisti abbiano scelto l’imbrunire: una decisione che conferisce alle immagini un effetto intimo, onirico, enigmatico; che contrasta però con il motivo della scelta; l’orario è quello dello spiaggiamento di tredici migranti avvenuto a Sampieri il 30 settembre 2013.
Infine la grandiosa Reggia di Caserta, sede della mostra e, in occasione dell’inaugurazione, della performance. Un edificio che si imponeva un tempo sulla fertile e splendida Campania felix. Oggi ai suoi piedi si stende il territorio devastato della terra dei fuochi; un’area la cui condizione è paradigmatica di un rapporto tra il territorio e i suoi abitanti basato sull’arroganza, sullo sfruttamento e sull’illegalità.
Gli elementi fondamentali del progetto sono dedotti da un rituale tuttora in uso a Scicli: l’Infiorata di San Giuseppe; un rituale che Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi sentono non solo nella dimensione esteriore, ma come modello attraverso il quale dare forma e significato alle relazioni interpersonali e al sentire collettivo. Perché il rito, come l’arte, è anche modalità di conoscenza, ricerca di senso, e ambito creativo in cui il singolo e la collettività si esprimono. Non solo; oltre a rispecchiare e sancire condizioni sociali, relazioni interpersonali e abitudini mentali, l’azione rituale parte dal presupposto che il rito possa contribuire attivamente a crearle.
L’azione di La terra dei fiori fa ricorso a simboli primari: i fiori, anzitutto, ricorrenti nel progetto sotto diverse forme. Con i fiori gli artisti creano una serie di poliedri, simboli antichi di equilibrio e di conoscenza, presenti sin dall’antichità nel pensiero occidentale; e realizzano due cappe con cui si coprono, fino a oscurare completamente le proprie singole personalità; così celati allo sguardo, cercano di instaurare una rinnovata relazione con il contesto. Con un terzo manto, infine, bardano lo stallone nero frisone, Eros, protagonista dell’Infiorata di Scicli.
I fiori sono da sempre simbolo di vita e di bellezza. Ma Vinci/Galesi hanno scelto di utilizzare crisantemini e gerbere: fiori che vengono coltivati intensivamente in entrambe le aree di riferimento del progetto, e che in Italia sono associati alla situazione del lutto. Il riferimento è dunque tanto alla morte e ai rituali che la accompagnano, quanto alla violenza delle logiche di un profitto cieco e ai suoi mortiferi effetti sull’ambiente.
Ha un ruolo centrale nel progetto il cavallo, magnifico compagno della loro avventura, figura iconica e monumentale, espressione di fierezza, di forza vitale, di sensibilità; e simbolo di un necessario rapporto di rispetto tra l’uomo e le altre creature. Alla sua figura i due artisti affidano il momento culminante del loro intervento, con il corteo infiorato del cavallo e dei bardatori che avanza sul viale rettilineo, verso la scalinata della Reggia.
Vinci/Galesi hanno inoltre realizzato, in inchiostri naturali e pigmenti, una serie di disegni. E sempre manipolando con tecnica antica la terra, più precisamente la terra di Acerra, hanno dato forma ad alcuni mattoni che portano incisa la parola “Felix”.
Così, alle forze distruttive che sembrano essere riuscite ad impadronirsi dei comportamenti e dei pensieri e che hanno determinato la devastazione ambientale del territorio siciliano, di quello campano, e per estensione di molte aree del villaggio globale, gli artisti oppongono l’elemento costruttivo per eccellenza, il modulo di base di ogni edificare: il mattone; sul quale incidono la memoria – e la speranza – di un equilibrio possibile, avanzando così la nozione di un passato che fu diverso e di un possibile futuro.
Alla mancanza di riguardo e al collasso morale che queste due aree d’Italia testimoniano, i due artisti rispondono contrapponendo la memoria collettiva e culturale trasmessa dalla sapienza artigianale e recuperando l’idea di relazioni basate sulla cura e sul rispetto. Del resto, già nel suo essere un progetto a quattro mani, La terra dei fiori porta con sé un senso di condivisione.
Nel lavoro emergono dunque le grandi dicotomie: natura e cultura, umano e animale, vita e morte, visibile e invisibile, rapporto con il proprio habitat, o sfruttamento. La terra dei fiori è un modo di confrontarsi con il tempo presente, calandosi nelle relazioni e nei rapporti di potere. Di parlare di valori, disvalori, di degrado e di una potenziale rinascita; è un modo di reagire all’arroganza opponendole la forza vitale, l’aspirazione, il desiderio.