The Next Flow
Only Connect!
(the prose and the passion)
di Pietro Gaglianò
“Nient’altro che connettere la prosa con la passione, allora entrambe ne saranno esaltate e l’amore umano apparirà al suo culmine. Non vivere più in frammenti.” Edward Morgan Forster
Ricordare e raccontare
La storia dell’umanità è dal suo principio una storia di migrazioni che contiene e disperde le narrazioni emanate da questi percorsi. Le comunità hanno i propri metodi di creazione mitografica delle migrazioni, volontaria o spontanea, e in Europa e negli Stati Uniti (luoghi di esodo e di approdo) il dibattito sulla forma istituzionale da dare a questa memoria comincia timidamente a prendere forma anche su un piano di carattere istituzionale: “i flussi globali di persone e di idee hanno imposto un cambiamento nei modi in cui viene concettualizzato e presentato l’immaginario sociale di una nazione, così come è cambiato il carattere dei pubblici coinvolti nella socialità degli spazi museali”1. Ci sono fatti che entrano nella cronologia ufficiale, custoditi nei libri, raccolti negli archivi, scolpiti nel marmo; altri invece vengono rimossi, o non arrivano a una verbalizzazione, o cadono tra le pieghe di quello che viene autorizzato e quello che scorre lungo canali non formali: i racconti, i canti, le immagini trattenute e poi tradotte. L’arte opera un processo di sintesi e rivitalizzazione di queste storie secondarie, facendo riemergere il rimosso, svelandolo in una trasfigurazione che tiene insieme il particolare con l’universale e sollecita la memoria come processo creativo. Grazie a questa sua capacità, l’arte compie un’azione contraria al verso della Storia, come avvertiva acutamente Aby Warburg, facendo sopravvivere “in una cultura quanto di più rimosso, di più oscuro, di più lontano e di più tenace in quella cultura si dia”2. Gli artisti in questo svolgimento si pongono al fianco dei testimoni diretti, perché non solo chi arriva o chi rimane ma anche chi vi assiste da lontano ha la responsabilità di elaborare una narrazione.
Isabella Pers ha frequentato a lungo immigrati e profughi. Persone che si sono trovate davanti alla scelta tra l’esilio volontario e la violenza insensata della guerra o le disastrose conseguenze dei cambiamenti climatici. Da questi incontri e dall’attenzione per le cronache di chi ha subito da poco la lacerazione del distacco nascono due progetti autonomi, e sviluppati con l’uso di diversi linguaggi artistici (la pittura, l’azione collettiva, il video, la fotografia), ma connessi molto chiaramente da alcuni elementi comuni, temi portanti della ricerca dell’artista: l’apprensione per le condizioni del pianeta, l’osservazione degli ecosistemi sociali, culturali e naturali, le crisi politiche e i cambiamenti accelerati dalla globalizzazione e, sopra ogni cosa, un fortissimo sentimento di responsabilità individuale. A guidare la metamorfosi delle immagini e delle parole operata dall’arte è sempre la necessità di creare condizioni per il dialogo, per una condivisione che dalle vicende private si apra a una comprensione globale, esattamente come globale è la scala dell’emergenze e il rapporto di causa e effetto in cui si dispongono.
Con un lavoro di zoom continuo, Isabella sposta il fuoco da luoghi lontani alla propria sfera personale, e in questo ripetuto gesto di connessione, empatico nel senso più preciso della parola, si situa l’origine di Teitiota, una riflessione sul futuro e sulla memoria, sulla responsabilità verso l’ambiente3. Ioane Teitiota è un cittadino delle isole Kiribati, primo richiedente asilo per cambiamento climatico, che ha fatto domanda di accoglienza al governo della Nuova Zelanda a causa dell’innalzamento dell’Oceano Pacifico che minaccia di sommergere dell’isola in cui vive. Teitiota ha dovuto portare via con sé la sua
famiglia, abbandonare lo scenario di una intera vita fatta di rituali privati, relazioni sociali, orizzonti per lo sguardo e per la mente4. La sua storia è l’emblema di un rapporto non equilibrato tra antropizzazione e natura che rivela la fortissima relazione tra ogni gesto e le sue conseguenze sull’ambiente. Nel lavoro di Isabella la sensibilità per queste vicende di partenze laceranti produce un interrogativo che spicca su un orizzonte familiare. Alcune immagini di una gita su un prato soleggiato, dove due donne, un bambino, altri bambini, godono il rapporto con la natura e il contatto con gli animali, sono state manipolate per apparire come un ricordo sfocato, o la prospettiva di un futuro incerto. In questa prospettiva il destino di Teitiota e delle Kiribati sono uno strumento ottico per figurare, anche a carico della propria famiglia, del proprio più ristretto ecosistema, la distopia di un tempo in cui le semplici azioni ritratte dall’artista forse non saranno più possibili. La sfocatura non indica soltanto il timore ma, tornando ad assumere un’intenzione globale, anche l’incapacità di visione di chiunque (dotato di micro e macro poteri) non stia agendo nel presente per un futuro sostenibile.
Migrare
La componente emotiva e affettiva espressa in Teitiota è temperata, dunque, da una più ampia riflessione sulla responsabilità individuale che illumina il ruolo dell’artista e la proietta in una identificazione con i protagonisti di ogni migrazione. Da qui proviene il desiderio di elaborare una testimonianza condivisa, che Isabella Pers realizza nella serie di dipinti Present. Le immagini raccolte dalla frequentazione con alcuni migranti (dalla regione dei Balcani, così vicina al Friuli dove l’artista vive, dall’Ucraina, dal Pakistan, dall’Afghanistan, dal Congo) si avvicendano con quelle riemerse dai ricordi di famiglia, legate alla memoria della seconda Guerra Mondiale.
Nell’iconografia dell’ultimo secolo e mezzo l’attributo del migrante, del viaggiatore, dei distacchi violenti dalla propria casa, è sempre stata la valigia, dagli impassibili emigranti italiani ritratti da Lewis W. Hine a Ellis Island al luttuoso Muro del Piano di Fabio Mauri. Per i profughi di qualsiasi categoria, e per tutti i migranti ai quali questo status non viene riconosciuto ma che non hanno avuto scelta, la valigia ha perso la forza simbolica, perché chi parte spesso non ha niente da portare via, o non può farlo, o perderà qualsiasi cosa nel corso del suo viaggio. O ancora perché i beni più importanti sono immateriali vengono portati via assieme a quella vita che si cerca di salvare, nella propria mente con il ricordo. L’elemento condiviso da tutti questi viaggiatori, quello in cui può riconoscersi empaticamente anche l’osservatore esterno è il sentimento della memoria, un giacimento che si rialimenta di continuo, modificandosi. Ai frammenti di vita trascorsa altrove Isabella dedica un numero virtualmente non finito di piccole tele di formato rettangolare, nate dalle conversazioni con i custodi di queste memorie. Si tratta di storie minime, a volte sintetizzate dalla persistenza formale di piccoli oggetti o preghiere, o solo istanti fotografati contro lo sfondo opalescente del tempo. Le tele compongono un mosaico, un racconto corale in cui il dettaglio individuale include e può narrare il globale.
La serie Present rivela ancora una volta il modo in cui l’artista riflette la propria vita privata nella pratica artistica, nell’una e nell’altra vengono tessute relazioni, accostati mondi tra loro remoti, ricucite distanze. “Nient’altro che connettere”, la frase in esergo di Casa Howard5 di Edward Morgan Forster è appropriata per descrivere la poetica di Isabella Pers. Nel romanzo incentrato sulla ricerca di una casa, fisica quanto esistenziale, e sugli sforzi necessari per salvarla, le persone sono costrette a incontrarsi, confliggendo anche, di continuo. Per dare spazio a una dimensione relazionale e fisica il progetto Present si sdoppia nelle realizzazione di un’azione collettiva documentata nell’omonimo video. Molte migrazioni sono avvenute per mare, e oggi spesso su autoveicoli, ma il rapporto tra il
migrante e la terra che attraversa ha sempre il ritmo del passo che batte sul suolo. Il tempo e il senso del camminare che Isabella avverte e traduce in un incontro corale.
Camminare
Joseph Beuys nel 1974 trascorse 5 giorni in una stanza di New York con un coyote. Dall’aereo atterrato all’aeroporto JFK era stato trasportato alla galleria René Block a Manhattan su una barella, e poi in ambulanza, completamente avvolto in un drappo di feltro. E dopo i cinque giorni in cui ebbe luogo I Like America and America Likes Me, andò via nello stesso modo, senza mai toccare, in questo modo, il suolo statunitense. Animato in tutta la sua ricerca da una fortissima sensibilità politica, Beuys volle in questo modo dichiarare la propria distanza da una nazione il cui governo era in quel momento responsabile di relazioni internazionali sanguinose, tra cui la guerra in Vietnam, e una degradante corruzione interna. Astenendosi dall’atto primario del camminare in un paese straniero l’artista tedesco ne mise in evidenza tutte le implicazioni culturali, sociali e politiche. Caricando di valore simbolico questo suo rifiuto di contatto Beuys volle “entrare in comunione unicamente con quello che considerava l’incontaminato passato spirituale dell’America […] rifiutando di riconoscere un paese innervato da guerra e corruzione”6.
Nel video Present (che nasce, come si è scritto, nello stesso humus emotivo e culturale della serie di dipinti), Isabella propone un’azione di verso opposto ma nutrita dalla stessa percezione, attribuendo al contatto con la terra una forza simbolica, un potere rigenerante, pacificante. Il video si ambienta sulla Dolina dei Cinquecento di Redipuglia, in un paesaggio come quello carsico che è congiuntamente storico e naturale, terra di confine carica di tracce di lunghi, sanguinosi conflitti, e presenze ancora visibili di trincee di una guerra di posizione. Gli uomini e le donne che vi prendono parte (tutti al momento abitanti del Friuli Venezia Giulia, vecchi e nuovi cittadini) hanno in comune una memoria dolorosa: una guerra, un’emergenza, un luogo natio abbandonato, in tempi recenti o più lontani. Alla fine del percorso, in uno spazio immune dalle testimonianze della guerra, sollevato dalla pressione della storia umana, hanno condiviso racconti, poesie, preghiere e silenzi. Hamish Fulton, probabilmente il più noto (e anche il più intenso autentico) dei così detti walking artist, dagli anni Settanta sintetizza nel camminare tutta la propria pratica artistica intesa come esperienza totale di conoscenza del mondo che attraversa, di meditazione. Come per dare seguito a un necessario ampliamento di questa comunione, nel corso degli anni Fulton ha iniziato ad alternare alle sue camminate solitarie anche azioni collettive, cui prendono parte anche centinaia di persone. Similmente al centro di Present non c’è il paesaggio attraversato, ma la pluralità che trova senso in un’azione comune, riscoprendo valore politico dei consorzi umani, una visione che nel lavoro di Isabella sfida ogni irriducibilità tra ideale e pragmatico, laddove “il significato di ‘politico’ è quello di una funzione capace di trasformare la moltitudine in cittadinanza, in comunità, grazie all’uso del linguaggio e della facoltà immaginativa”7.
Il video, politico quanto poetico, semplifica in tal modo la natura della condizione indispensabile perché la storia non sia solo uno strumento egemonico, ma l’esito di un esercizio collettivo teso a salvare, a tradurre, a ricordare e raccontare: a connettere, come auspicava la meravigliosa Margaret Schlegel di Forster, “la prosa con la passione”.
1 Susan Asley, A Museum of Our Own, in Laurence Gouriévidis (a cura di), Museums and Migration. History, Memory and Politics, Routledge, Londra / New York 2014, p. 153.
2 Georges Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Parigi 2002 (ed. it. L’immagine insepolta, Torino 2006, p. 144).
3 I mutamenti climatici in corso caratterizzano l’attuale era geologica, iniziata con la rivoluzione industriale del XVIII secolo, l’Antropocene; “In August, the Working Group on the Anthropocene presented a recommendation to the International Geological Congress that a new epoch needs to be declared: the Anthropocene, or the age of humans. For the last 12,000 years or so, we were in the Holocene. This era has apparently come to an end, as humans have become the main forces of transformation of the planet. Yet the Anthropocene as a concept might produce the false impression of a unified humanity, where all people are agents of change. The reality is that if humans have indeed become the principal agents, overwhelming natural drivers of changes, most people are actually not enablers. Indeed, we often tend to forget that most humans on this planet are actually the victims of these changes — starting with those being displaced. At the same time, as Europe was engulfed in the so-called “refugee crisis,” unable to respond in a coordinated and dignified fashion to the plight of thousands of migrants fleeing desperate situations, political leaders and international organizations were pushing for a clear distinction between refugees and migrants”, François Gemenne, Environmental Forum, 2016.
4 Le Nazioni Unite hanno inserito le Kiribati, unitamente ad altri stati insulari come Maldive, Tuvalu e Tokelau, in una lista in una lista di ecosistemi a rischio di sopravvivenza per causa dei cambiamenti climatici. Ciò nonostante la Corte Suprema della Nuova Zelanda ha rigettato la richiesta di Teitiota.
5 Howard’s End, pubblicato nel 1919, la prima edizione italiana è del 1959.
6 Lexi Lee Sullivan, Stepping Out, in L.L. Sullivan et al. (a cura di), Walking Sculptures 1967-2015,
DeCordova Sculpture Park (Massachusetts) / Yale University Press (New Haven – Londra) 2015, p. 11. 7 Pietro Gaglianò, Memento. L’ossessione del visibile, Postmedia Books, Milano 2016, p. 56.