Alle radici dell’arte ambientale e partecipativa

Alle radici dell’arte ambientale e partecipativa

di Diego Mantoan

Per ripensare il nostro presente, per sperare in un futuro sostenibile, la risposta di Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi – vincitori dello Sustainable Art Prize 2017 istituito dall’Università Ca’ Foscari Venezia ad ArtVerona – è semplice quanto radicale: bisogna rifondare tutto! La società, fatta di donne e uomini. Il rapporto con la natura, finalmente paritario. Lo sviluppo economico, per forza sostenibile. La centralità della cultura, pilastro d’umanità. Per i due artisti siciliani non basta cioè affidarsi a tecnologie meno inquinanti o a nuove fonti di energia, né tantomeno trovare facili escamotage per lavarsi la coscienza. Al contrario, è necessario mettersi completamente in gioco, come singoli individui e come collettività intera. Serve una presa di coscienza profonda che sfoci in un atto creativo, il solo capace di generare un rinnovamento autentico. Bisogna pianificare un’utopia concreta e agli artisti spetta il ruolo di catalizzatori delle energie positive nella società.

 

L’azione performativa e, ancor più, la struttura narrativa ideate da Vinci/Galesi per il loro debutto veneziano affondano a piene mani nella fertile esperienza dell’arte ambientale e partecipativa degli ultimi cinque decenni. Con la lunga stagione di Land Art degli anni Sessanta e Settanta del Novecento ebbe luogo una progressiva presa di coscienza delle più ampie tematiche ambientali nelle arti visive. Due in particolare sono gli Earth Work di quella prima stagione a cui si può riallacciare La Repubblica delle Meraviglie di Vinci/Galesi: da un lato i recuperi ambientali di Nancy Holt, dall’altro le invenzioni paesaggistiche di John Latham. A differenza dei celebri innesti biotopici di suo marito Robert Smithson, come nel caso della Spiral Jetty nel lago salato dello Utah, quelli della Holt erano piuttosto inserimenti naturali tesi alla rigenerazione ambientale di spazi usati e poi scartati dall’umanità. Col progetto Dark Star Park (1979-84) a Roslyn, Virginia, l’artista nordamericana si dedicò al recupero di una fetta di terreno abbandonato fra un crocevia di svincoli stradali partendo proprio dalla costruzione di una nuova narrazione del territorio. Oltre a rinverdirlo, scelse infatti di collocarvi delle sculture megalitiche allineate con le posizioni astrali, traendone così un parco di sculture astrologiche e investendo quell’appezzamento di un lirismo vivificante. Pochi anni dopo la Holt fu invitata con l’opera Sky Mound (1988) a rigenerare una discarica nel New Jersey che trasformò in un parco di colline con osservatorio astrale. Un’analoga operazione fu quella compiuta pochi anni prima in Scozia su alcune colline di detriti minerari da John Latham, fondatore dell’Artist Placement Group assieme alla moglie Barbara Steveni. Anche in questo caso l’artista era stato chiamato ad affrontare l’eredità tossica dello sviluppo industriale che aveva irrimediabilmente alterato il paesaggio scozzese. Non potendo eliminare le alte colline brune di scarti della lavorazione mineraria, come in una seduta di psicanalisi collettiva Latham scelse di mettere l’intera popolazione davanti a questa ferita del territorio. Nel tentativo di attribuire un senso a questi aborti ambientali e di evitarli in futuro, l’artista analizzò la composizione delle colline, ne documentò la forma, immaginò una loro costituzione mitologica anziché umana e, infine, diede loro un nome. Così facendo le colline ribattezzate Niddrie Woman e Five Sisters (1975-76) si fissarono come monito indelebile nell’immaginario della società che le aveva prodotte.

 

Giungendo al termine di un processo di elaborazione narrativa, la performance di Vinci/Galesi si colloca a pieno titolo nel solco di questi precedenti storici. Tuttavia, a differenza delle operazioni della Holt e di Latham, non sono gli artisti la fonte unica della nuova narrazione. Attraverso workshop e seminari l’Ateneo e Venezia si sono trasformati in un laboratorio per l’elaborazione partecipata di un’utopia sociale, politica, economica, ambientale e scientifica, capace di immaginare e gettare le basi di un futuro realmente sostenibile. Con La Repubblica delle Meraviglie viene dunque attivato un ampio processo di costituzione che coinvolge tutti quanti aspirino a creare un ottimo luogo per l’umanità. Per questo fondamentale aspetto l’operazione di Vinci/Galesi richiama alla mente altri celebri esempi di arte ambientale e partecipata, in primis l’azione 7000 Eichen (1982-1987) di Joseph Beuys. Nel tentativo di rimboscare la città di Kassel nell’arco dei cinque anni che separavano due edizioni di documenta, l’artista tedesco aveva scaricato una montagna di monoliti davanti al museo Fridericianum, ciascuno dei quali sarebbe stato rimosso e apposto vicino a ogni nuova quercia piantata nel distretto urbano. Beuys avviò un processo collettivo di cui non avrebbe visto la fine, ma che coinvolse centinaia di persone fra volontari e collezionisti. Fu infine ripreso anche dal DIA Center di New York che ripropose la celebre azione di comunità nella Grande Mela con il titolo 7000 Oaks (1988). Le querce sono cresciute alte e forti, mentre i monoliti posti affianco – ormai bassissimi in confronto agli alberi – rimangono come silenziosi testimoni di una collettività che ha deciso di ripartire dalla natura, anziché costruire monumenti. Una scelta che portano avanti anche Vinci/Galesi, i quali si affidano tuttavia al soffio di vita effimero e alla delicatezza dei fiori, presagi di vita naturale e simboli di rinascita costante. La loro presenza nel tessuto storico dell’inurbamento lagunare pare voler riconquistare Venezia, città emersa dalle acque in simbiosi con il proprio ambiente naturale. I fiori associati alla monumentalità di Venezia generano l’immagine di un’umanità che ritrova la via della natura o quantomeno di una società che non intende più sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti dell’ambiente di cui fa parte.

 

Ed è proprio questa prospettiva integrata che riallaccia l’intervento di Vinci/Galesi alle più recenti esperienze di arte ambientale e partecipata, come i numerosi progetti realizzati nel 2007 per la mostra Weather Report al Boulder Museum of Contemporary Art, Colorado. Grazie alla curatela di Lucy R. Lippard, fra le prime influenti teoriche donna al mondo e strenua attivista per i diritti femminili, l’esposizione di Boulder si trasformò in una carrellata di proposte artistiche che avevano abbandonato i tradizionali toni apocalittici o shoccanti riguardo al futuro del nostro pianeta, preferendo invece coinvolgere i visitatori a livello emotivo e intellettuale per sovvertirne progressivamente le convinzioni. Seguendo questa strategia, Sherry Wiggin realizzò numerosi Carbon Portraits (2007), ossia la rappresentazione visiva del Carbon Footprint dei visitatori che aveva intervistato, così da mettere il pubblico di fronte alle proprie responsabilità individuali. Chris Jordan invece fece familiarizzare il pubblico con la dimensione delle proprie responsabilità collettive, rappresentando con collage fotografici intitolati Running the Numbers: An American Self-Portrait (2007) il numero di SUV acquistati negli USA o l’effettiva quantità di bottiglie di plastica consumate dagli americani ogni cinque minuti, ossia 2 milioni. Tornando ai fiori e basandosi sugli studi dell’università di Vienna, il video The Mountain in the Greenhouse (2001) realizzato da Helen Mayer Harrison e Newton Harrison mostrava un massiccio roccioso che si spogliava progressivamente della sua fauna naturale: a causa dell’innalzamento del clima i fiori risalivano la montagna fino alla cima per poi sparire irrimediabilmente. Sempre a partire dagli effetti del cambiamento climatico, Mary Miss propose l’installazione diffusa Connect the Dots: Mapping the High Water, Hazards and History of Boulder Creek (2007), ossia l’apposizione di grandi bollini blu su edifici e pali in tutta la città per visualizzare il livello che raggiungerebbero inondazioni causate dalle nuove catastrofi naturali.

 

L’azione di Vinci/Galesi, così come i progetti descritti da Weather Report, appartengono a una nuova e assai efficace categoria di arte ambientale e partecipata: oltre a far riflettere lo spettatore, sono bellissimi! Ed è proprio dei grandi artisti riuscire a formalizzare un utopia, sposando in una sola immagine le idee con le qualità estetiche. Il dono ulteriore che ci fanno Vinci/Galesi è infine quello di immaginare assieme a loro questa utopia. La loro opera veneziana non sarebbe stata possibile senza l’aiuto pratico e di immaginazione degli studenti coinvolti. Gli artisti ci lasciano così due messaggi potentissimi. Il primo riguarda il nostro pianeta: nessuno potrà mai salvarlo singolarmente, ci vuole l’apporto di tanti o perfino di tutti. Il secondo apre uno squarcio su un futuro possibile che, anziché distopico e da incubo, può essere bellissimo come un tappeto di fiori.

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