Armati di petali

Vinci / Galesi | La terra dei fiori / 2017 / Neon / L. 200 cm

Armati di petali

di Daniele Capra

Il progetto La terra dei fiori, di Sasha Vinci e Maria Grazia Galesi propone una contro-mitologia rispetto ai luoghi della Campania che sono stati al centro delle cronache giudiziarie degli ultimi anni per le tragiche questioni ambientali e criminali. Luoghi che hanno visto cedere alla malavita la completa gestione del territorio, luoghi in cui lo Stato ha abdicato e i cittadini hanno convenuto di essere assenti, di non vedere o non sapere, prigionieri volontari dell’indifferenza cui in pochi hanno saputo resistere. Essere cittadini implica però schierarsi e non mettere la testa sotto la sabbia, come aveva spiegato proprio un secolo fa Gramsci, in un tagliente monito morale: “Odio gli indifferenti. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. […] Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita pone loro quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto”[1].

La terra dei fuochi è disseminata di scorie tossiche, è avvelenata, insalubre, è vinta dagli eventi tragici che l’hanno colpita. È un dedalo attorcigliato come in una tragedia greca in cui gli dèi puniscono gli uomini per la loro superbia, per la tracotanza dell’hýbris di coloro che hanno mancato di rispettare l’ordine necessario.

A questa impasse Vinci/Galesi suggeriscono invece una via di uscita, di ordine visivo e morale, attraverso una contro-narrazione territoriale, a partire dai fiori che in Campania sono coltivati. Al degrado essi contrappongono infatti il rigoglioso germogliare della natura, che è elemento di meraviglia ed espressione della volontaria ricerca di riscatto della cittadinanza. Il territorio campano può essere infatti anche la terra dei fiori, luogo in cui crescono gerbere e crisantemi. Nostra deve essere la volontà di invertire lo stato delle cose, nostra la spinta mirata al superamento della situazione attuale. L’arte che si propone anche di cambiare il mondo deve suggerire una percorribile pratica di salvezza. E, forse, anche dall’estremo abbandono possono germinare onestà, bellezza, dignità. Ma se, e solo se, si pensa che una soluzione a portata di mano sia praticabile.

 

 

Nelle cultura visiva occidentale il fiore è in maniera indissolubile legato alla bellezza, alla purezza, agli elementi transitori e alla caducità. Da quando si afferma definitivamente il tema iconografico dell’annunciazione, quasi ogni arcangelo che si presenti alla Madonna reca tra le mani un giglio, fiore che non è solo, insieme alle ali, uno degli attributi identificativi di Gabriele, ma anche un segno di buon auspicio e soprattutto un simbolo che fa riferimento alla purezza della Vergine. E pullulano di fiori, con una ricchezza di varietà botaniche ancor maggiore, in particolare dal secondo Quattrocento, i prati che circondano scene sacre o mitologiche, in cui sono evidenti i riferimenti alla bellezza, al ciclo delle stagioni, alla rinascita.

Il fiore reciso è inoltre uno degli elementi caratterizzanti di un genere come la natura morta, che si diffonde a partire dalla fine del Cinquecento e che diventa uno dei soggetti più praticati dalla pittura fiamminga del Secolo d’Oro. È l’allegoria della bellezza e della fugacità del mondo insieme, ma anche un campo di battaglia per le fantasie e le virtuosistiche abilità pittoriche degli artisti: è decorazione e insieme un monito, laico e realistico, frutto di una società che si sta secolarizzando e che vuole commissionare agli artisti non solo scene religiose o mitologiche, ma opere che raccontino e parlino del mondo a loro contemporaneo.

Nel Novecento delle avanguardie che passano al tritacarne ogni topos iconografico ed ogni rigidità socio-culturale, il fiore, dopo esser stato prevedibilissimo soggetto pittorico decorativo comune negli interni borghesi, perde completamente le sue caratteristiche per esser metafora di altro: in particolare della donna, dell’eros oppure, con una complessità psicologica maggiore, dell’inganno celato dalla seduzione dell’apparenza. Ma nella seconda metà degli anni Sessanta, una vera rivoluzione avviene coi movimenti studenteschi e la controcultura hippie. Allen Ginsberg teorizza in un articolo infatti come “masse di fiori – in una sorta di spettacolo visivo – specialmente concentrate sulle linee frontali possano essere usate per per creare delle barricate”[2]. Nasce così il Flower power e l’idea di rispondere con un fiore alla violenza e alla forza dell’autorità, irridendo polizia ed esercito con un gesto infinitesimamente piccolo di protesta: ai soldati schierati si offre infatti un fiore o lo si infila dentro la canna dei loro fucili. Da quel momento il fiore è qualcosa di diverso, è strumento di una lotta pacifica, l’emblema di una stagione di non-violenza con cui manifestare la contrarietà sia alla guerra in Vietnam che ad una politica che conosce l’uso delle armi come solo strumento di risoluzione dei conflitti tra gli Stati.

 

 

Il progetto La terra dei fiori mostra ed argomenta le possibilità espressive del fiore – segno di rigenerazione e spiritualità – ma soprattutto lo rende un dispositivo politico che l’arte impiega in forma simbolica. Non vi sono in esso questioni manifestamente ideologiche, quanto invece ragioni concettuali e botaniche: condivide gli stessi terreni delle aree inquinate, ma produce bellezza, e con delicatezza suggerisce la possibilità di cambiamento dello status quo.

Vinci/Galesi propongono visioni transitorie, fuggevoli quanto la bellezza di un fiore, meraviglia condannata ad un veloce disfacimento. In queste  opere l’elemento floreale trasforma, anima, nasconde. È una presenza naturale che racchiude molteplici significati che affondano le radici nelle mitologie più antiche. Ma sono anche metafora della fragilità del mondo contemporaneo, immagine di gioia e di lutto. Dell’eros che anima l’amore terreno e della pace che scioglie quello celeste.

La serie de La terra dei fiori è costituita da opere fotografiche di grandi dimensione, un neon di color magenta che icasticamente ripropone il titolo del progetto, dei mattoni realizzati impastando la terra dei fuochi e poi dei disegni e della documentazione. Tali lavori raccontano il percorso attraverso cui Vinci/Galesi hanno interrogato, grazie all’impiego del fiore, le identità individuali ma anche i luoghi dimenticati segnati da abbandono, trascuratezza, degrado civile.

La terra dei fiori suggerisce, in maniera simbolica, le potenzialità mimetiche e metamorfiche insite nell’elemento floreale, che vengono dagli artisti portate al massimo grado. La bellezza semplice di gerbere e crisantemi incarna infatti la reazione allo sfacelo di un territorio soggiogato dalla criminalità e dall’inquinamento causato dai rifiuti. È metafora del possibile ribaltamento della forzosa circostanza di prigionia, è il sogno di ribellione ad una situazione a cui, razionalmente, non si sarebbe potuto immaginare una via d’uscita percorribile.

I due artisti si mostrano interamente avvolti da un mantello floreale coloratissimo che nasconde i tratti somatici in contesti dal valore simbolico. La loro figura è quella di un spirito che dissemina colore e futuro nel grigio e nell’abbandono del presente. Il drappo in cui gli artisti sono avvolti è realizzato cucendo a mano migliaia e migliaia di fiori su eterei tessuti, rispettando un’antica tradizione propria delle celebrazioni religiose della festa di San Giuseppe di Scicli, nel ragusano. Gli scenari sono invece quelli poetici di una spiaggia in cui mare e terra si contendono la supremazia; ma quella è soprattutto la riva in cui sono sbarcati decine di disperati provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo, in fuga dalla guerra, luogo in cui si sono arenati corpi di uomini senza più speranza. La bellezza dei luoghi, testimoniata da alcune immagini degli ultimi progetti, è così un controcanto che fa stridere ancor più i limiti della condizione umana.

 

[1]      A. Gramsci, Indifferenti, in La città futura, Torino, febbraio 1917.

 

[2]      A. Ginsberg, Demonstration Or Spectacle As Example, As Communication Or How To Make a March/Spectacle, in Berkeley Barb, 19 novembre 1965.

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