Falsità in buona coscienza

Falsità in buona coscienza

Matilde Sambo

In collaboration with:
aA29 Art Project Gallery

 

Forse il fine più alto dell’arte è di porre in atto simultaneamente tutte queste ripetizioni, con la loro differenza di natura e di ritmo, col loro rispettivo spostamento e tra-vestimento, con la loro divergenza e il loro discentramento, di inserirle le une nelle altre, e, dall’una all’altra, di avvolgerle di illusioni il cui «effetto» varia caso per caso. L’arte non imita perché anzitutto ripete, e ripete tutte le ripetizioni per conto di una potenza interiore (se l’imitazione è una copia, l’arte è simulacro, potere di rovesciare le copie in simulacri).
Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione.

 

Siccome afferma Gilles Deleuze, l’obiettivo più alto dell’arte potrebbe essere quello di rompere definitivamente con gerarchie ontologiche che distinguono tra diversi livelli di verità, o meglio, di autenticità, allora la mostra di Matilde Sambo Falsità in buona coscienza non fa che presentare il proprio sottile e sofisticato approfondimento di questa idea. In realtà, più che un’idea è tutta una praxis messa al servizio della cancellazione dei confini tra opposizioni dicotomiche comuni, ma in realtà inesistenti.

Deleuze spoglia il concetto di simulacro di tutte le connotazioni negative a esso attribuite da Platone fino al ventesimo secolo: Così il concetto di simulacro non viene più associato all’idea di falsità o di inganno, come in Jean Baudrillard, ma è il concetto adatto a pensare il mondo in termini non dicotomici i.e. vero-falso, materiale-immateriale, sacro-profano, e in particolare, come indica la citazione riportata sopra, è un concetto interessante per pensare certe pratiche artistiche.

 

Quindi, se certe pratiche artistiche sembrano, o di fatto sono state pensate in rapporto a questi sviluppi teorici , l’opera di Sambo sembra approfondire aspetti più sottili, o in apparenza più indiretti al tema. In effetti, la ricerca recente dell’artista, e in particolare il progetto sviluppato per la presente mostra, è da considerare partendo dal tema del limite, o meglio, a partire dalla cancellazione e dalla non chiarezza di esso. Coppie di concetti apparentemente opposti si dimostrano, nel lavoro di Sambo, come un continuum, e i confini diventano labili. In questo senso, la discussione della possibilità di una chiara separazione tra quello che è natura e quello che è artificio, o quello che è sacro e quello che è profano attraversa in maniere più o meno evidenti tutti i lavori in mostra. Inoltre, la continuità tra idee e fenomeni apparentemente opposti è rafforzata dai diversi cicli, temporali, naturali e di retroazione veicolati nelle serie presentate.

In questo senso, le sculture appartenenti alla serie Cantus ab aestu, che l’artista realizza utilizzando delle mute di cicala trovate sugli alberi come stampi, funzionano come un elemento amalgamante dell’insieme di opere nello spazio. Il titolo della serie allude al mito di Eos (Aurora) e Titone, secondo cui questo ultimo sarà convertirlo in cicala, amica dei poeti e delle Muse, in modo che possa dedicare le sue giornate a cantargli le lodi. La cicala adora il dio Apollo, e quindi canta solo nelle ore più calde e luminose del giorno. In quest’opera si trovano riferimenti alla continuità tra la vita e la morte, come ciclo vitale e temporale, ma anche come possibilità di permanenza attraverso un mutamento di stato: nel caso del mito, Titone, che invecchiava sempre di più ma non moriva, diventa una cicala che dedica la sua esistenza a lodare il dio Apollo; nel caso delle sculture di Sambo, la muta da origine alle opere. In ogni nuova situazione di installazione, l’insieme delle cicale cambia materiale, numero di elementi, e ogni singolo elemento è sempre unico, come lo sono i soggetti che si spogliano della muta originale. Così, cicli, origini e limiti tra natura e artificio sbiadiscono ancora. Inoltre, si apre una domanda sulla concezione diffusa di tempo ciclico: si può parlare veramente di cicli “naturali”? O non sono anche essi, così come il tempo, pura artificialità concettuale?
Nello spazio della galleria, insieme alle cicale, si trova un’altra serie di lavori che mettono in discussione ulteriormente, attraverso semplici strategie di intervento o sovrapposizione la distinzione tra naturale e artificiale: conchiglie modificate in maniera quasi impercettibile, o ciocche di capelli, cera e spine che formano piccole composizioni leggermente inquietanti.

 

Spesso queste composizioni sono semi nascoste, o sono installate in posti di difficile accesso allo sguardo dello spettatore, come se la visibilità non fosse il suo primo scopo.
Anche per le “vere” reliquie destinate alla adorazione dei fedeli che si possono trovare in migliaia di santuari, siti di pellegrinaggio e chiese del mondo la visibilità non è il primo scopo, o almeno la sua visibilità permanente, e questa irrilevanza si ricollega alla seconda serie di opere in esposizione, La materia non è mai al suo posto: un serie di “finte” reliquie esposte in quattro reliquiari, modellati dall’artista e fusi dalla Fonderia Artistica Battaglia, che contengono stalattiti trovate in una grotta. Considerando la grotta in cui Sambo le ha raccolte come un tempio profanato, la stalattite diventa artificio attraverso il gesto dell’artista. In questo modo, le differenze nette e i limiti tra quello che è sacro e quello che è profano di confondono ancora una volta, così come quello che viene considerato come “opera”, o (e?) oggetto di devozione.

 

Infine, c’è Omeostasi, appartenente alla serie Untitled-Monitors and Materials: un’installazione video su due monitor in cui l’artista documenta una sessione di “manipolazione”. In uno dei monitor lo sguardo si concentra sulle mani del massaggiatore, nell’altro sulle reazioni della paziente, che passa dal riso intenso al pianto angosciato. Il lavoro può sembrare al primo impatto scollegato dell’organicità di quanto descritto sopra, ma in realtà anche in quest’opera, come in quelle precedenti, si apre una domanda su cosa si scelga di credere in un determinato contesto, e sulla realtà o la finzione, o la mancanza di distinzione tra queste: la fede in questo caso, non è in rapporto all’elemento religioso come nel caso della reliquia, ma a un tipo di terapia che nella cultura occidentale è considerata “alternativa” a un approccio scientifico. Come si può, quindi, si essere diffidente da una terapia alternativa e allo tesso tempo credere nel potere taumaturgico della reliquia?

La cancellazione del limite si trova in quest’opera anche nel passaggio, talvolta indistinguibile, tra gioia (o meglio, godimento, seguendo Lacan) e sofferenza: nel secondo schermo, la paziente passa dal riso al pianto senza soluzione di continuità, ed è a volte difficile distinguere se le sue espressioni siano di estasi o di angoscia profonda.
Omeostasi considera inoltre un altro aspetto della (ancora una volta) falsa distinzione tra naturale e artificiale: la trasformazione delle mani da estremità condivise con altre specie, come lo sono ancora nei primati, a strumenti che ci distinguono, forse, dagli animali non umani. Dal momento in cui l’animale umano si alza dritto sulle gambe, le mani rimangono libere di manipolare oggetti, e di costruirli. Tuttavia, come si discute da tempo, gli animali umani non sono gli unici a “creare” tecnologia e manipolare oggetti, e questa creazione è inoltre parte integrale della specie, per cui intendere la tecnologia come “artificio” e come distinta dalla “natura” è in se una falsa separazione.

Diventa così evidente come l’utilizzo consapevole del simulacro da parte di Matilde Sambo in Falsità in buona coscienza diventi una strategia artistica che ha come obiettivo invitarci a ripensare il mondo, o almeno una parte di esso, in termini ciclici e non contraddittori.

Milano, maggio 2019.

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